Scampoli di storia

A volte la storia, quella con la S maiuscola, si dimentica dei fatti piccolini. Quelli che sembra che non interessano a nessuno. Che passano sotto silenzio. Dietro, dentro, però, ci sono persone vere, ci sono storie che l’altra storia, quella grande, forse l’han vista solo di lontano. Ma c’erano anche loro a tenerle compagnia. Forse, in qualche modo, l’han tenuta proprio a battesimo, l’han cresciuta.

Insomma. Capita che c’è un paese nella “bassa”. Il paese dove abito e dove sono nato. Capita che in questo paese c’è un circolo. Va be’, circoli ce n’è tanti, ma questo è il “Circolo Fratellanza Operaia”. No, dico… Capita che ieri sera si festeggiavano i cent’anni di vita del circolo. No, dico. Cent’anni. Vabbè.

Come si festeggia un compleanno così importante nella “bassa”? Semplice: mettendosi ai fornelli. Non ho mai visto tanta pasta e fagioli e tanto friggione tutti assieme in vita mia. Friggione, sì. Perchè per fortuna c’è ancora qualcuno che per festeggiare non ha bisogno di mettersi il vestito buono. E per i cent’anni del CFO il menu era: pancotto, pasta coi fagioli, friggione, pancetta alla brace e costoline. E lambrusco. Tanto lambrusco. Acqua poca, ma ci sono anche i bambini, un po’ ci vuole.

È più o meno a questo punto che entro in scena io. No, non col friggione. Per quanto gli abbia fatto onore. Per festeggiare non ci vuole il vestito buono, dicevo, ma a volte qualcuno ha dei sensi di colpa. E così, per dare al tutto un tono di “commemorazione” decidono di organizzare un concerto di musica classica, per intrattenere i convitati. Ospite d’onore, Vito, che è figlio di uno dei soci storici del Circolo.

No, non sono un musicista. Capita però che nel giro del CFO ci siano diverse persone, buoni amici, in grado di racimolare e montare un impianto per l’amplificazione. Poi però serve qualcuno che si prenda la responsabilità di convincere i musici che quello che c’è è perfetto per far suonare loro ed i loro preziosissimi strumenti. Un fonico, insomma. È lì che sono entrato in scena.

A dire il vero, per poco non ho rischiato di mancare. Mi ero talmente fatto prendere dalla smania di studiare il C e la GTK+ che quando l’amico che si era occupato di racimolare l’impianto mi ha telefonato ricordandomi gentilmente l’impegno che avevo preso… Ok, gentilmente è una parola grossa, ma certe cose è meglio non descriverle esattamente come sono avvenute.

Insomma, arrivo sul posto e cominciamo a disporre i microfoni. Intanto la gente in piazza si siede ai tavoli e comincia la cena. Noi cominciamo il soundcheck. E scopriamo che ci sono dei problemi:

– È il microfono, lo cambio.
– No, guarda, anche peggio di prima.
– Forse il canale del mixer?
– Proviamo… Nono. Dai, è il cavo.
– Un altro cavo non ce l’ho…
– Vabbè, prova a mettere quel microfono lì al posto di quell’altro…
– Ma sei sicuro?
– Sì che sono sicuro. Vedi? Ora va. Dai, di quell’altro microfono là possiamo fare a meno.

Insomma, non esattamente una situazione rilassante. Com’è, come non è, riusciamo a far sedere gli strumentisti ai loro posti, coi loro bravi microfoni e comincio a far suonare l’impianto. Pasticcio un po’ coi volumi, coi suoni, cercando un equilibrio che sia ascoltabile, nonostante i volumi da seconda bottiglia di lambrusco che stanno tenendo le persone ai tavoli. Tavoli che arrivano, naturalmente, fin sotto al palco: gli emiliani san capire le priorità, quelle vere.

Mentre son lì che faccio i miei esperimenti, cercando di seguire anche i segni disperati che mi fanno i musicisti per esprimere il loro bisogno di sentir meglio questo o quell’altro strumento, vedo con la coda dell’occhio una ragazza che si alza da uno dei primi tavoli e marcia decisa verso la postazione del mixer. Cerco di far finta di niente, ma quella mi si piazza di fronte e seccatissima mi si rivolge:

– Ma non ti sembra di esagerare, con tutto questo casino? In fondo quelli sono strumenti acustici, e suonano benissimo da soli anche senza bisogno di amplificare e…

Capisco che la situazione è delicata. Che va trattata con tatto, che è necessario far capire a questa ragazza che non è che voglio fare un dispetto a qualcuno, ma solo fare in modo che tutti possano ascoltare. C’è bisogno di un gesto amichevole e cordiale. Così, senza alzare gli occhi dal mixer, porto tutti i cursori a zero e commento:

– Lo escludo.

Attimo di silenzio. Silenzio, si fa poi per dire, ci sono persone attorno che ridono, urlano, si scambiano pettegolezzi, come sempre succede ad una cena. Ma degli strumenti nessuna traccia, nonostante sul palco si continui a suonare. Sguardo imbarazzato della tipa:

– Ok. Scusa per la figura di cacca. Buon lavoro. Ciao.

Detto ciò, si volta e torna al suo tavolo, più bassa di qualche centimetro. Ma forse è stato solo uno scherzo della luce, ormai al tramonto. Faccio cenno ai musicisti di riprendere a suonare, visto che intanto si erano interrotti temendo un problema dell’impianto, spento di colpo, e mi giro verso gli amici dietro di me. Realizzando che hanno smesso di parlare da più di qualche istante.

Mi volto, dicevo, e li vedo che mi fissano ad occhi sgranati. Un paio di battiti di ciglia, e siamo piegati, tenendoci la pancia ed asciugandoci gli occhi dalle lacrime, in preda ad una crisi di risate quasi isterica.

Nel giro di qualche minuto riusciamo a riprendere un contegno, e tutto procede poi per il meglio fino alla fine. Compresa la sbronza storica a fine concerto, giusto guiderdone per un lavoro ben fatto.

Mi resta però la sensazione, in fondo al cuore, di essere entrato un po’ nella storia del CFO anche io.

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